Per Francesco Musante

Non sono certo passati più di cinque anni dall’ultima volta che vidi opere di Francesco Musante; ma il solo ricordo che ne serbavo riguardava non tanto le opere quanto la bizzarra, infinita distanza di queste da lui: e, quindi, la difficoltà che trovavo a scoprire un rapporto tra l’uomo e il pittore. Difficoltà? O non era, addirittura, un’impossibilità? Ripensandoci, concludevo che doveva trattarsi di un rapporto casuale, meccanico, senza vera importanza. Musante usava gli acrilici perché allora gli acrilici erano di moda. Musante aveva visto i pop e per questo faceva il pop. Le sue opere, correttamente eseguite, mi sembravano fredde e mi lasciavano freddo. Mentre lui invece, generava calore. In tutte le sue manifestazioni, esclusa la sola pittura, Musante dava l’idea di un carattere appassionato, delicato, fantasioso, sensuale, originale. Ecco, soprattutto questo: originale, autonomo. Più della galleria dei suoi acrilici, che mi aveva mostrato quando ero andato a trovarlo, mi era rimasto nella memoria il menù della straordinaria cena che aveva immaginato e personalmente cucinato per me in quell’occasione. Ogni portata, la si consumava prima con gli occhi: era un capolavoro spettacolare, visivo, anzi audiovisivo, o addirittura audiolfattovisivo, a cominciare dal trionfale antipasto che posò al centro della tavola e prese a rimestare vigorosamente: un’enorme casseruola di muscoli profumati, fumanti e cozzanti tra loro con armonioso acciottolìo. Ma cinque anni per un giovane dell’età e dell’inventiva di Musante sono moltissimi: le opere che presenta quest’oggi sono una rivelazione. Ecco finalmente una pittura che commuove, incanta, e lo esprime. La scatola della vita, così ha intitolato Musante i collages che presenta oggi. Un ellenico volto femminile, un arcaico idolo dai misteriosi, liquidi occhi celesti, dalle labbra cremisi, dalle guance lievemente azzurrognole, si stacca appena sulla tela velata di cenere: è sbucato dalla scatola: dietro, quasi nell’incavo del collo, spunta un altro volto, non altrettanto soave, anzi duro, enigmatico, forse spietato . . . ma rio, l’altro volto è solo una maschera! e viene così il dubbio che sia una maschera anche la fanciulla dai liquidi occhi celesti, una maschera, un sogno, un ricordo, un’illusione. E l’acconciatura che la corona, capigliatura o parrucca, e che la sovrasta con la sua meravigliosa struttura embriciata, spessa, corposa, seppie bruni blu ocra terre variate, isola la segreta angoscia del dolcissimo idolo. Ah, questi collages di Musante, sebbene appartengano tutti alla stessa ondata ispiratrice, producono ciascuno il suo lieve choc delicatamente diverso da ciascuno degli altri. Il loro mistero incantevole sta forse nella giustapposizione di tre materie 1) l’ordito della tela, visibilissimo nella trasparenza di un velo di colore grigioazzurro molto delicato, quasi una tempera; 2) il volto, o la maschera, dove si sente ancora la grana della tela, non l’ordito, e dove il colore è un po’ più spesso, campito a zone tese e omogenee, senza chiaroscuro, senza rilievo, caso mai un’ombra di sfumature; 3) il collage delle enormi acconciature, dove Musante sfoga la sua ricca, preziosa, squisita sensualità: carta di giornali o rotocalchi ora velata ora caricata di colore, carta da pane, carta di Varese, carta talvolta liscia e talvolta arricciata, carta increspata, ombreggiata, luminosa, solchi e dossi in una mirabile armonia di spessori, colori, stremature, linee curve e linee spezzate, contorni e pienezze, fiocchi, penne di uccelli selvaggi, ali mostruose di falene. Scatole della vita. Forse Scatole a sorpresa? Direi piuttosto: Scatole senza sorpresa. Perché l’eterogeneità stessa di quelle tre materie dimostra che il centro ispiratore di Musante è altrove. Musante è ancora giovane e può darsi che tra breve ci sorprenda di nuovo, con una terza maniera. Per il momento, la sensazione quasi musicale che procura questo dominante accordo di tabacco scuro e carta-zucchero, di rugose corposità e lisce opalescenze, lascia supporre nn gusto della vita voluttuoso, malinconico, nostalgico,curiosamente raffinato.

Mario Soldati Tellaro, febbraio 1978

Le vite parallele di Francesco Musante di Tommaso Paloscia

Il disegno, l’incisione, la pittura di Francesco Musante invitano a goderne globalmente le immagini, ossia quelle immagini scaturite dal segno fluido che, indifferente alle coercizioni delle regole e alle esortazioni del buonsenso, continua a scorrere anche sotto i colori festosi di cui si caricano gli olii e gli acrilici. Voglio dire che in queste condizioni l’analisi non serve a molto perché sarebbe quasi pleonastica. Non aiuterrebbe inoltre a capire, o a far capire, così come esigono gli schemi d’una critica abitualmente in cerca di aree etichettate in cui cacciare l’espressione e il linguaggio che ne coordina le strutture, con lo scopo dichiarato di consentirne l’agevole lettura. L’arte di Musante è leggibilissima di suo perché autenticamente e generosamente semplice; diverso invece è il discorso sui contenuti. La mano che li costruisce e sviluppa è una furia scatenata nello spazio offertole dalla fantasia dove la matita rincorre, per riproporle, situazioni già sognate dall’artista, magari desiderate e mai conseguite nella vita reale: sogni a occhi aperti vissuti negli anni dell’adolescenza, oggi utopico incontro con quanto rivive ingigantito prodigiosamente nel ricordo che è il recupero di una felicità svanita, sottrat- ta per inesorabile esproprio al destino dell’uomo. C’è in tutto questo la conquista sanzionata dal tempo che costituisce, come accade a ciascuno di noi, la riserva accumulata e nascosta nel profondo della coscienza, nell’archivio segreto della memoria; al riparo da ogni violenza. Non è forse il ricordo l’unico paradiso dal quale non potremo mai essere cacciati? Penso dunque che ogni tentativo di identificare i sogni di un pittore, e il ricordo che ne cela e difende le motivazioni, avrebbe il senso di uno sfratto dell’artista dal suo mondo magico; di un divieto a rifugiarsi in quel suo paradiso incantato. E sarebbe come tarpare le ali alla fantasia, come ridurre a formule aride la creatività. Amerei che queste osservazioni, rapide e magari non sufficientemente sorrette dall’intuizione critica, inducessero l’osservatore ad abbandonarsi al ritmo di quel gioco fantastico di donne e di omìni in bilico fra la favola e la poesia di cui si serve l’immaginario di Musante quando stimola tante avventure strepitose e divertenti insieme. Leggere dunque senza l’assillo dell’indagine. Musante del resto è una sorta di battitore libero, stravagante ed elementare nel medesimo tempo; per descriverne le im-
prese bisogna esercitarsi a «parlare» in modo semplicissimo e scorrevole evitando i tecnicismi linguistici che darebbero noia a noi e a voi. Soprattutto a lui. Per queste ragioni ritengo che un discorso sulla sua arte debba articolarsi in maniera, come dire?, confidenziale; soprattutto priva di accademismi. Direi anche, che allo scopo di prevenire una qualsiasi deformazione interpretativa di quel che fa Musante, bisogna precisare subito che il pittore, diversamente da quanto è stato da molti sostenuto, non è un surrealista nel senso acquisito storicamente dal termine. Anzi, non è surrealista proprio per niente. È semmai un visionario che racconta favole insensate e tuttavia legate a un filo conduttore che non ha in sè nulla di logico e pure si trascina dietro tanta ironia: una ironia che è nelle cose, negli ambienti compositi e intriganti, nelle situazioni assurde che i colori e le figure presentano in una complessa immagine psichedelica; o nelle didascalie che accompagnano a mo’ di titolo le composizioni senza fornire un contributo alla decifrazione perché sono scritte, ossia grafie, che hanno semplice valore formale nell’economia del quadro. E in una siffatta Babele, peraltro simpaticissima, sono forse quelle didascalie a tentare di coinvolgerci nelle folli avventure nelle quali inutilmente cercheremmo di individuare elementi orientativi, comunque simboli che abbiano riferimento diretto o indiretto a situazioni reali. E qualora ve ne fossero, non sarebbero rintracciabili nel nostro tempo e, penso, addirittura in nessuna epoca storica perché la pittura o meglio il disegno di Musante è fenomeno senza tempo. Mi era capitato con Possentí e con Mutzlinger di restare fuori dall’analisi del dipinto o del disegno per godere il messaggio nel suo complesso, tanto più suggestivo quanto meno si prestava alla identificazione. Forse meno inafferrabile il primo con le sue favole «vere», complicate da indagini impossibili sui protagonisti storici della cultura, cacciati nel giardino del racconto fantastico insieme con l’immagine ricorrente dell’autoretestimone; certamente meno identificabile il secondo il cui segno suole impazzire persino nelle grafiche riproposizioni paesistiche di luoghi realmente esistenti. Osservando i quadri di Musante la tentazione di creare una distanza fisica da quelle «vicende» che minacciano di intrigarci, cioè la tentazione di restarne fuori, è indub-
biamente forte. Quelle scritte, poi: mai lapidarie e sempre un poco barocche (nei casi più semplici: «La città del sole. Il coniglio sorveglia l’entrata della città del sole dove abitano i miei pensieri», nei casi meno semplici: «mentre il vulcano [forse il Vesuvio] fischiava ed urlava frasi di fuoco il maestro Alfredo C*** dirigeva la strana banda ed io aspettavo che tutto ciò finisse per cominciare ad amarti [forse ad amarmi»]. Scritte falsamente esplicative e perciò fuorvianti, talvolta confuse da parole ammucchiate tutt’intorno ai margini, viluppo grafico a tutela dell’immagine centrale. Ma è davvero importante, mi domando, guardare dentro ai significati di un dipinto? Mi viene a mente un pensiero di Picasso. Non ne ricordo le parole esatte (e me ne scuso) ma la sostanza era questa: «quando mi levo al mattino e apro la finestra che si affaccia sul mio giardino, ascolto gli uccelli che cantano e ne sono estasiato; ma per godere di quell’incanto non mi chiedo che cosa vogliano dire gli uccelli con la loro melodia». Mi pare una stupenda osservazione. E per tornare a Musante, ricordo che ha scritto egli stesso di non poter spiegare il significato dei suoi disegni perché non lo co- nosce; (2 penso che nemmeno gli uccelli sappiano che cosa cantano. Persino l’usignolo nelle sue sublimi esibizioni di solista. Ovviamente, in questo sbrigativo approccio all’arte di Musante ho tenuto presenti le rappresentazioni più recenti delle sue invenzioni segniche e cromatiche per cui ritengo che i concetti fin qui detti muterebbero di capitolo in capitolo scorrendo una rassegna antologica dell’opera. Altrimenti che senso avrebbe l’indagine felicemente condotta da Raffaellino De Grada sulla donna allora ricorrente nelle espressioni pittoriche di Musante Si era nel febbraio dell’80 e il critico scriveva: «È la donna che recita, che assilla la fantasia del pittore, che sembra esca fresca fresca dal mondo del secondo Liberty, in una scena teatrale, in un ritratto del primo dopoguerra». Non si tratta evidentemente della donna in improbabile equilibrio su un piede poggiato in cima al campanile; della donna nuda, galleggiante nell’aria alla maniera di una figura di Chagall, che afferra nel cielo uno spicchio di luna; o di quella che corre pericolosamente sul fumo di una locomotiva lanciata sbuffando attraverso la notte di plenilunio. Non è la donna della «strada per la casa della collina». 9
No, certo. Forse potrebb’esser quella che nelle immagini dello Zodiaco è stata demandata da Musante a rappresentare l’Acquario; o la donna dell’Attesa o della Finestra o, meglio, quella Eleonora in cui il ricordo delle suggestioni klimtiane indica un momento che privilegia nell’arte di Musante la ricerca di linee flessuose per le sue «femmine»: secondo gli stilemi che esaltano le armonie decorative nelle quali si racconta dei fasti delle secessioni europee. In ogni caso è una questione formale. Ed è questa la strada ovvero l’itinerario in cui gli episodi dell’antologica si riallacciano l’uno all’altro confondendo le loro diversità; non per una dimostrazione di coerenza che in Musante non avrebbe senso, ma per indicare la continuità degli sviluppi della ricerca al di sopra dei valori contenutistici. Anche se la forma inventata dall’artista ligure può assumere riferimenti concreti alla sostanza del racconto. Come accade a certi eletti che riescono ad applicarsi seriamente nella ricerca, Musante frantuma di volta in volta i limiti delle conquiste conseguite nelle soluzioni formali; e lo fa attraverso l’uso del disegno: un disegno che non conosce soste in quest’operazione di avanscoperta. Ha scritto: «la matita diventa il mezzo di trasporto per i miei viaggi e nella carta ritrovo tutto un mondo incontaminato dal progresso». Vale a dire che ogni volta il bianco totale del foglio emblematicamente gli rivela la verginità dell’area sulla quale gli è consentito di incidere in via progettuale le idee suggerite da una fantasia fertile, anzi inarrestabile. E in quel bianco incontaminato è il viatico all’ennesima «nuova» impresa. A questo punto ci sarebbe un’altra considerazione da fare, pur se nel codice figurativo di Musante può colorirsi di una certa ovvietà; intendo riferirmi alla graduale perdita di quella staticità che le immagini di Musante subiscono per molto tempo riflettendosi persino nei primi anni settanta. È senza dubbio la progressiva acquisizione di un virtuosismo sempre più disinvolto nel segno a permettere di ampliare anche il numero delle cose e delle figure rappresentate nella stessa scena, ma è soprattutto il mutamento del «carattere» della composizione a imporsi dilatandone le pretese e le ambizioni. Perché è la dinamica, che cresce e manifesta via via tendenze stranamente nuove per questo tipo di disegno, a caricarsi di un ruolo de
terminante in quanto mostra di privilegiare non i sostegni della realtà ma quelli dell’illusione. E allora seguiamolo, per quanto è possibile, il bel viaggio che lascia al palo di partenza quella «Casa sul fiume», acquaforte del 1973, con la quale la Pinacoteca di Vezzano apriva il catalogo dell’opera incisa: prezioso documento, questo, presentato con dovizia di puntualizzazioni critiche da Ferruccio Battolini che è il vero cantore dell’intera impresa di Musante. Si tratta di un viaggio che ha alle spalle una nutrita esperienza di collages di cui s’interessò circa venticinque anni or sono Mario Soldati; poi una navigazione breve e magari avventurosa nell’astrattismo che nel ’68, sulla scia della protesta giovanile, aveva inteso riazzerare l’esperienza figurale suggerendo più spregiudicate avventure coloristiche; infine l’inevitabile incursione nell’area della PopArt che, come tutti i fenomeni moderni di ampia affermazione, ha avuto lunghe code di seguaci e di interpreti nel nostro paese. Ma qui siamo già al risvolto figurativo che suggerirà poco dopo le notazioni di De Grada e di Andrea Del Guercio sulla donna di Musante: elemento chiave di una riconquistata dimensione espressiva. In tutto questo, ad ogni modo, si identifica il prologo a quell’inizio ovvero alla partenza di cui discorrevo dianzi e che era necessario citare anche sommariamente; perché è chiaro che esperienze cosi toccanti avevano avuto un grande peso nella preparazione di Musante per il salto nel mondo fantastico che non concede ritorni. Un bel testo biografico, legato a questo percorso e ottimamente redatto da Giovanna Riu, offre materiale interessantissimo a chi intende approfondire l’indagine psicologica sugli atteggiamenti e le scelte  di vita e artistiche  di Francesco Musante. Le considerazioni che accompagnano quegli eventi hanno sottilmente creato il referente più adatto alla esplorazione del carattere dell’uomo, dell’ambiente che ne ha favorito lo sviluppo, del «modo» a lui più congeniale di esprimere se stesso a mano a mano che le condizioni di vita, le suggestioni epocali, le mode, le necessità, gli incontri umani gli hanno offerto suggerimenti Wtimali per realizzarsi. È un lavoro importante che potrebbe costituire il canovaccio di una tessitura analitica del percorso che conduce ai fatti iconografici di oggi: vi troverebbero una spiegazione pregnante le impennate, le retromar- s
ce inevitabili le contraddizioni che gli episodi punteggiano come sottolineature di un temperamento non analizzabile sul piano anatomico della critica sistematica. È naturale, forse, che si studi scultura nella pur eccellente Accademia Ligustica di una Genova ricchissima di capolavori pittorici e si affronti la scuola di pittura nell’Accademia di Carrara, a due passi dalle storiche cave del marmo che mandò in visibilio Michelangelo scultore? Ma ancora una volta mi vien fatto di chiedere a me stesso: è importante tutto questo? è importante forse per appagare la curiosità con cui tento di avvicinarmi a quel mondo delle illusioni, della visionarietà, dell’ironia, un mondo appena intriso di sadismo che oggi Musante offre all’osservazione di tutti: per divertirsi, per divertire, sì, ma soprattutto per fare pittura? Una pittura densa di emozioni e di tensioni che tuttavia riesce ad apparire gioiosa, a placarsi nell’ironia del gioco. Vengono alla memoria certi olii di Maccari (fors’anche per analogia col linguaggio di Musante anch’esso abituato a esprimersi nelle due tecniche della grafica e dell’olio dai colori pastosi) in cui il paradosso si fa avanti spietato travolgendo canoni di catechismi ritenuti inservibili, anzi dan nosi alla sua alimentazione. Solo che in Maccari la visione paradossale delle situazioni e delle figure che le abitano si fa strumento essenziale per conseguire il prezioso traguardo della satira; mentre qui, in Musante, la satira nel senso maccariano non esiste. Mentre il paradosso sì; persino più agile e disarticolato per stare a quel gioco che gioco non è; magari meno attento alla grammatica per farsi spericolato ma non lucidamente aggressivo. Guardo quel distinto signore in tenuta orientaleggiante che pesca la gentilissima signorina Mariella in una coppa riempita di acqua azzurra dalla luna, e poi scaricata da un rubinetto in un elegante porta ombrelli: si dondola nello spazio molto improbabilmente sorretto da una corda che viaggia su carrucole e pulegge attaccate al cielo; ed è legata, all’altro capo, alla coda di un gran pesce che riempie di sé l’armoniosa vascazuppieracoppa. Altre lune ci fanno compagnia nell’ammirare quel difficile esercizio geometricamente tracciato sull’impossibile meccanismo reso affine a una macchina di Munari. La scritta tutt’intorno varia a seconda di come Musante muta le situazioni e i personaggi nella scena che è ripetitiva alternandosi ad invenzioni al tre in quest’ultimo quinquennio. E il regno del paradosso. La paura, dunque, quella che lo aveva spinto a incidere e a dipingere donne scaramantiche, è svanita; e Musante l’ha probabilmente affidata a quei personaggi che gli hanno fatto compagnia nei primissimi anni ottanta, fra i risvolti di un Liberty reinventato, di un Déco diluito nelle linee sinuose lasciate dalla sua magica matita. Sono cose comprensibili ora; ora che ne conosciamo i risvolti e i riferimenti; ora che la poesia dedicata da Possenti all’artista, alle sue paure affievolite dal ricordo di quando erano vere, dell’adolescenza cioè che tutto teme dell’immediato futuro, suona oggi come denuncia dello scampato pericolo. «Amo ora, senza ragione,  iniziava la lirica di Possenti le cose che da fanciullo temevo; / nella notte mi conforta / il monologo della civetta / e ascolto, senza fretta di dormire, / i messaggi dei cani lontani. / Né il vento improvviso in giardino / mi turba con le voci segrete dei rami; / mi è amico il cammino del viandante sconosciuto nella strada…». Ecco: Musante  vo’ dicendomi da qualche tempo  si è accompagnato a quel viandante sconosciuto e lungo il cammino, cominciato casualmente e ancora lontano dal concludersi, ne ha perquisito l’anima e la coscienza; e vi ha trovato mille altri piccoli viandanti e nessuno di loro aveva ed ha paura del buio, ché anzi questo accompagna l’avventura ed è l’elemento più congeniale al loro desiderio di mascherare il senso di rivalsa (sulle sconfitte della vita) che si manifesta cammin facendo. La recita nostop improvvisata lungo il dipanarsi di questa vita parallela, come in una commedia dell’arte invoca la testimonianza della luna e quella di un cronista ridiventato fanciullo: perché ne disegni e colori le vicende da palcoscenico e ne trascriva, con la bella calligrafia ornata di scolaretto diligente, gli episodi inventati per via. Sono convinto che Musante, nel recupero dell’età scolare, di fanciullo e di cronista in erba, abbia trovato lo spazio fantastico che lo consacra maestro.

Firenze, settembre 1992

Il Circo di francesco Musante

Il circo di Musante mi ricorda il circo di Mirò: la scena che ho in testa è quella di Musante seduto sul divano della mia biblioteca sotto il quadro che Mirò mi fece consegnare con dedica personale, dopo il film-intervista che gli girai nel 1978 per festeggiare i suoi 85 anni. La pittura del ligure si lega a quella del “Catalano Universale” sui piani paralleli del sortilegio che sorprende e dell’equilibrio creativo che tutti diverte e appaga teneramente, credo a cominciare proprio dai bambini. Sulla collina che dava sul mare di Maiorca, ai «Son Abriles»—il nome della residenza—aveva preso domicilio il «circo di Mirò», col suo realismo magico, pieno di luci musiche e acrobazie della mano, figure e colori densi di apparente ingenuità perché di tecnica consumata. Piccolo come Chaplin, con gli occhi azzurri del grande vagabondo, una faccia di pelle rosea e liscia come quella dei bambini, parlava poco in un mondo di chiaccheroni, era sobrio in un ambiente di scatenati, e lavoratore tenace in un giro di fannulloni senza arte né parte. Sulla collina di Vezzano Ligure, nello studio del borgo medievale con scenografia da laboratorio, Musante racconta con pennello e penna la sua acrobatica awentura in un universo che riprende i segni del linguaggio dove li ha lasciati Mirò. Il ligure è di stazza fisica doppia, quasi tripla, del protagonista di «casa Mirò : 85», ma gli ho letto elementi comuni, come lo sguardo chiaro, la saggezza serena della voce, la sana difesa della condizione fisiologica come assicurazione sul proprio lavoro: «Bisogna mantenere la propria salute per conservare il desiderio della ricerca del nuovo diceva Mirò in quell’intervista. Altro che «genio e sregolatezza» nella versione del suo amico Hemingvay. Dalla G’ nova di Musante alla Barcellona di Mirò, dalla collina di Montroig a quella delle Cinque Terre, c’è un filo di unione una riga nera sopra un fondo biancastro, il filo della vita nella fantasia cromatica della loro awentura artistica. Fisicamente, invece, Musante mi ricorda Franco Gentilini, grande e grosso, faccia beata, di baffo curato, il Gentilini di Via Margutta fine anni Quaranta, distaccato e tranquillo nella baraonda romana dove i Guttuso fingevano di sostituire il demonio a Dio nel nome di una rivolta dei figli contro i padri, finita con l’assassinio dell’arte come la crocifissione di Cristo, voluto da quelli «fuori del tempio». Con Gentilini, Musante divide anche la grafia delle sue didascalie una scrittura in corsivo fra lo storto e l’obliquo, che si contrae frenandosi sull’ultima sillaba delle parole che accompagnano il quadro o, meglio, ogni episodio della favola relativa ai personaggí del «Circo». Ricordo la calligrafia Gentilini che, per qualche numero, collaborò a «La Settimana Incom» e le sue tavole di costume recavano illustrazioni di grafia fine, di sghembo, come quella che ho ritrovato, ritorno di Cina, nella pittura di Musante. Il paragone con la Cina è d’obbligo. La chiamano l’ottava arte, la calligrafia, un’arte esclusivamente cinese, più tardi copiata dai giapponesi. Secondo Liu Cheng, poeta calligrafo amico di Lu Xun, è il pilastro dell’arte tradizionale nella storia delle dinastie, perché non si può essere un buon pittore in Cina senza essere un buon cal grafo che, ovviamente, dev’essere anche un buon poeta, per via che nel quadro la parte calligrafica è quasi sempre in versi di composizione propria. L’arte tradizionale cinese nasce dalla fusione di quella che io chiamo “la trinità artistica”, dei tre elementi creativi, pittura-calligrafia-poesia, che ispira e comanda il pittore cinese da oltre duemila anni. Li Keran, il capo dell’ultima scuola paesaggistica cinese, detta “Scuola dei fiumi e delle montagne”, morto senza poter appagare il desiderio di ammirare a Roma gli affreschi michelangioleschi della Sistina, diceva del su maestro Qi Baishi che la pittura del Mirò cinese, era «l’arte della somiglianza dissimile». I cinesi scrivono la loro didascalia nella parte alta a destra del quadro, da destra a sinistra e dall’alto i basso. Musante ci scrive tutto intorno, come un passepartout di parole, una cornice che è cascata di parole e musica a sostegno e coronamento del primo atto della composizione, la fatica della «dissomiglianza simile». Li Keran dice che i caratteri calligrafici del quadro servivano anche a spiegarne il contenuto poetico, ed erano come una lampada accesa dall’alto sull’acquarello, per awertire lo spettatore sullo stato d’animo dell’artista nel momento in cui dipingeva le figure del suo quadro. Musante usa nelle didascalie lo stile favolistico illustrando le scene dei suoi personaggi fissi, come la mitica Mariella fra le persone e il Golfo delle Ciliege Candite fra i paesaggi. In Cina si dice che la pratica della calligrafia porti alla longevità, perché non si tratta di una normale «bella scrittura>> ma di un esercizio mentale e di composizione decorativa più intriso di serenità di quanto non lo sia il disegno. Questo è per me il Musante di Vezzano Ligure che richiama il Mirò della catalana Montroig. Mi ricorda i mas dei contadini deformati nelle mani, i filamenti cromatici dell’interno del Salotto Olandese numero 2, con le sue figure sospese fra il sole rosso del tramonto e il primo quarto di luna bianca sul mare del Golfo; in aggiunta dal pennello alla penna, un pennino incisivo come un chiodo d’arpione, il raccontino fiabesco della didascalia «cinese», in calligrafia che richiede concentrazione e tecnica e sicuro bagaglio culturale racchiusi in una capsula asciutta come un epigramma di Dalì, altro catalano universale che ha trasformato la maledizione di Goya e il genio di Velasquez nella maggior leggenda del surrealismo contemporaneo. Illustrazione eloquente è visibile nel quadro di castelli case e campanili sul mare, all’ora del tramonto, mironiano e surrealista, con la scritta intorno che dice: «Pablo (Picasso) disegna le onde del mare del Golfo, mentre Joan (Mirò), perduta la testa per la Signorina M.I., appende una luna nel cielo…» Bravo Musante, che non perda mai la sua finta innocenza e la sua sincera dubbiosità.

Ilario Fiore Roma, ottobre 1994

Lettera per Francesco Musante

Noi, caro Eligio, dobbiamo diffidare del tempo che passa come componente della nostra saggezza. Abbiamo nipoti del tipo eterodosso e originale di Francesco Musante, ché quando cominciarono con la loro grafica rampante, le loro didascalie di umile prolissità, si meritarono da noi vive lodi sub conditione: ché stessero attenti a non restar paghi di quel felice illustrar di favola ogni immagine, che di architetti del segno puro, immaginifico, c’era stato soltanto Maccari, che, in ogni caso le loro allegrie emotive, tirate fuori come da un sacco Befana, allineate su davanzali e ribalte, raramente avevano la forza di diventare ironie. E poi che facessero modo di non colorare, quasi a volerli far scomparire in un labirinto, in una foresta, i personaggi concepiti in bianco e nero, che li pensassero fin dal principio dipinti, come fa per esempio Possenti. È indubitato tuttavia che Francesco Musante, fin dai suoi inizi fosse già fisionomico anche nei limiti. Quell’allungare nei suoi omini volanti le tube di Borghese, fino a farle diventare ciminiere, quell’allineamento in un palcoscenico di immobile scena madre, con attente simmetrie e alternanze di cose e persone di un “racconto” impossibile (con la scommessa taciuta di farcelo comunque gradito) quel contare, chiamandoci a correi, sulla importanza della donna, sia nei “tramonti infuocati” sia negli “atelier”, sia nei “grandi circhi”, sempre allo stato di Eva in reggicalze. Faccia da partner al giullare del Re, bendata dalla stessa sua corona, o si affacci a una cornice di quadro come da una finestra o che sia in equilibrio su una testa di pesce, prillando un palloncino con dita come una foca ammaestrata, o, come una delle tante “gentilissime signorine Marielle” venga configurata un insieme di nudi dipinti, questa altra metà dell’uomo è tanto presente quanto puramente ornativa.

C’è poi, tipica della iconografia di Musante, la “scritta’, come una ricca, elaborata determinante cornice, senza quale l’immagine non diventa racconto, o meglio, prima si spiega con le molte parole, un acuto pencolante corsivo, che risulta però quasi inutile, anzi prevaricante, rimanda ad una più diretta lettura, alla muta eloquenza dei segni e dei colori.

Perché l’artista copre lo spazio fruibile affidando il racconto alla sua mano pensante pennelli, trampoli di matite, chicchere, soli e lune, palle in grande equilibrio su aste sospese dentro cieli neri, poi li commenta.

Le sue fabbriche dei sogni non nascono da una operazione di officina con un montaggio di pezzi a catena ma, sono il prodotto della mano di questo operaio della fantasia, dell’immagine globale, da incorniciare poi con parole.

Oramai sono passati più di vent’anni da quando io lodavo Musante spronandolo a portare ad una maggiore incandescenza di tavolozza le sue parabole giocose.

Ha fatto più di cento mostre personali, è portato da una folla fans, qualunque riserva io abbia adesso non ha senso. Eppure quanta stupenda pittura è dietro e dentro certe sue opere ultime che si allineano alle altre di più evidente e cordiale messaggio! Come il grande circo, quadrato fazzoletto steso, coi ricami delle didascalie come frangia.

 

Marcello Venturoli   Roma – Marzo 1995

(Marcello Venturoli scrittore, poeta e critico d’arte militante)

  

Sogni sciagurati e sciammannati, il fantasticario di Musante.

Il sogno diventa la scusa per dipingere o scrivere non importa che, pure i capolavori. Romi Nel dipinti di Francesco Musante compaiono presumibili ingenuità: sono tra le peggiori perfidie che un pittore possa perpetrare (ricordiamolo, secondo l’accezione leonardesca la pittura è arte dell’inganno) nei confronti di chi si lasci cadere nella trappola della compiacente accoglienza delle sue immagini, che ti rabboniscono mettendoti di buon animo, e togliendoti già dal primo approccio la giusta propensione al giudizio consapevole e alla critica meditata che chiunque sia dotato di normale buon senso sente dover praticare nei confronti di un’immagine dipinta. È l’idea medesima di buon senso, il suo stesso concetto filosofico a esser mellifluamente scardinato e dolcemente deposto poiché osservando queste ingenuità  per esempio il fumo di una ciminiera dipinto come fosse quello di una pipa  ci si mette in pace rassicurati dall’ostentato “naifismo” oggettivo e si accetta gradevolmente il coinvolgimento in un percorso all’apparenza sorridente, e invece irto di sarcasmi, cattiverie, dispetti, capricci perversi e continui trabocchetti che attendono il credulo viaggiatore. I suoi dipinti sono circondati da scritte o corredati con didascalie dal tono estremamente laconico e tautologico le quali affermano quanto l’immagine rappresenta, come a voler rassicurare che, sì, chi guarda ha visto giustamente ciò che vi è rappresentato. È un’altra trappola subdola, poiché le pantomime descritte dal pittore sono invero del tutto folli e prive di significato. Così siamo noi stessi ad attribuirne uno qualsiasi, indotti dalla nostra inconscia necessità di raccapezzarci in questo simpatico ed empatico spazio demenziale. Le scritte, di fatto, non spiegano nulla ma depistano l’osservazione dalla congruità deduttiva istigando all’interpretazione induttiva e conferendo un’idea presunta e competente a immagini del tutto fantasiose e incomprensibili, determinate alla rinfusa come un casuale deposito dell’immaginario onirico di Musante. Per giudicare quanto possa essere ingannevole l’adeguarsi al dettato di queste scritte che apparentemente integrano le immagini, basta considerare che da noi “metter il punto sull’I” significa specificare puntigliosamente, voler precisare a tutti i costi. Invece Musante sull’1 depone vezzosamente una stella tracciata infantilmente, logo che corrisponde per associazione simbolica al sogno. I sogni di Musante hanno notti serene con almeno una decina di mezzelune, sono popolate da pittori che si danno un gran daffare brandendo pennelli enormi come picche da torneo, camminando sul filo, levitando su sgargianti cuscini, passando da un’isola all’altra come calabroni di fiore in fiore, mentre funamboli trasognati esibiscono equilibrismi assurdi, i treni si arrampicano sugli alberi, concertisti sgangherati suonano strumenti silenziosi. Può capitare che tra questi personaggi s’intravvedano gli amanti volatari di Chagall,

quelli del suo primo periodo parigino. Le scritte spesso girano intorno al quadro perché nei sogni non c’è sopra e sotto, e tutti si può volare; i sogni non hanno né capo né coda se non per volonterosi psicanalisti; vale tutto e pure il contrario. E non agisce la forza di gravità. Questi quadri sembrano gli exvoto di un ironico stravagante salvato dalla propria fantasticheria efferata. Poche volte s’è visto un pittore servirsi delle proprie facoltà e delle ingannevoli qualità pittoriche in modo tanto perverso e presentate con l’aria più innocente. È bene non lasciarsi intricare di più: se applichiamola lettura delle scritte all’immagine, o viceversa, nascono altre storie che a loro volta si moltiplicano e ci si trova in una di queste notti stellate e tra le lune multiple a fluttuare tra gli omini in tuba, le sirene, le casette levitanti, dentro l’intrico delirante, nel labirinto a spirale senza un’uscita né un centro. Gli esperti sostengono che esista una psicopatologia del fantastico: se vogliamo fargli credito, essi sostengono che gli inquadramenti come le scritte con cui Musante circonda le sue fantasie figurate rispondono a un elementare e naturale bisogno di ornamentazione e segnalano la reazione difensiva dell’Io per sfuggire alla disgregazione e contenere il disordine. Facciamo torto all’artista se ci poniamo a esaminare il suo lavoro da simili punti di vista, però non sappiamo davvero esimerci dal cercare l’altra faccia della medaglia nella sua poetica, troppo semplice per essere come sembra. Ce ne avverte pure la calligrafia affatto innaturale, apparentemente infantile, irta puntuta e rigida, arricciata, dal vago goticismo e, come lascia intendere l’impianto grafico delle immagini, adombra l’ottimo incisore acquafortista che di solito s’accompagna all’eccellente disegnatore. Il disegno ha infatti un ruolo significativo nell’opera di Francesco Musante, iniportanza accademica di tradizione toscana: disegnare poi colorare. Bisogna dirlo innanzitutto, eppoi pensarci, perché è difficile districarsi una poetica che si articola tra pittura e letteratura procedendo su un filo sottile come quello teso nelle notti musantiane percorse dagli omini armati d’enormi penn stilografiche. E facile comprendere come l’artista goda particolare stima presso i letterati. Ma bisogna precisare che il suo mezzo espressivo è la pittura. Mi sovvengo certi dipinti di Dino Buzzati, i finti exvoto de “I miracoli di Valmorel” Della Domenica Assunta rapita da un pettirosso il mattino de nozze; oppure: Contessa Laura e contessina Morzia Bacigalupi inseguite dagli stessi; e ancora La Santa Rita debella l’angoscia già cronica, delle ore due di notte, nel famose dormitorio del pio riposario a Campodarsego A proposito delle pitture buzzattiane Enzo Carli insinuava che ingenerassero “il sospe di una incapacità dello scrittore a racconta certi fatti, a descrivere certe situazioni servendosi soltanto della penna”. Non va invertito il concetto a carico di Musante il quale potrebbe esser creduto incapace a realizzare certe immagini servendosi soltanto della figurazione perché certi racconti che Buzzati ha saputo scrive come “IL veggente prende un granchio sulla data della propria morte” Musante li saprei dipingere senza trasgredire nulla di ciò che rende la pittura un linguaggio indipender e specifico. Avremmo un bel cercare nei s quadri qualche, anche piccolo, errore compositivo, alcuna. impropri età struttura il sovrappeso o lo squilibrio proporzional tra forma e colore, o un vuoto cromatico. Non se ne trovano. Del resto l’equilibrio è solo tema di contenuti ma pure di significati: ovunque ci sono fili tesi con funamboli in bilico: se agli antipodi “hanno i
piedi per terra” noi abbiamo “la testa per aria”? E pure il nostro destino, la vita, la fortuna, sono “appesi a un filo”, e così via. Simili e altre infinite simbologie si possono evocare seguendo lo sguardo su queste immagini. La struttura formale è elementare, si può dire semplice, ma si tratta d’una precisa scelta in favore della sintesi a conferire deliberatamente quell’atmosfera incantata, prossima al naifismo, che attribuisce la magia, l’aura sognante, incantata, il fascino orfico, delle sue fantasie. La qualità tecnica è uno strumento che Musante usa con scaltrezza e perizia e, come ben sanno gl’intenditori, in pittura la vera abilità non si deve vedere: a controprova, se si cercano analogie e comparazioni per definire la qualità dell’impianto disegnativo, anche della qualità del segno, di Musante dobbiamo salire direttamente ai piani alti: da Depero, a Gentilini, a Folon, a Tadini, non certo ad artisti neoprimitivi. A notte fonda il “Titanic” si allontana col gran pavese passando sotto un buffo aeroplano pilotato da Frank Sinatra che saluta Giuseppe Garibaldi annunciato da fuochi d’artificio mentre Cristoforo Colombo dorme in cima a un albero. Musante non ha dipinto ancora questo quadro, ma chi può dirlo? La sua vena fantastica e la capacità combinatoria tra le favole e i sogni precedentemente raffigurati gli permettono di trarne altri, all’infinito. Così è arrivato anche lui a produrre l’agiografia miracolistica di San Francesco da Vezzano, vescovo sconosciuto ai cristiani, alterego del maestro pittore Francesco Giuseppe Schenone, alias Francesco Musante, sognatore di prodigi. I quadri diurni sono abbastanza rari, ma calorosi, più sereni, e riferiscono deragliamenti meno beffardi che in quelli notturni in cui le stelle si sono via via trasformate in una sorta di nevischio argentato che avvolge tutto come i turbini nevosi nelle sfere di cristallo “ricordo di Forte” mentre i pittori, sempre più attivisti, coi loro pennelli chilometrici predispongono paradossali marchingegni articolati per sollevare una barca di carta. Come non lasciarsi attrarre, avviluppare da tanta perfidia ottimistica? Siamo nella favola o nel delirio? Ma il testo dell’opera di Musante è ben altro. Una omerica smitizzazione della prosopopea pittorica che è pure una demistificazione della “professionalità”, del “mestiere”, della “deontologia”. Si tratta di un’azione iconoclasta e, come sono miscredenti coloro che hanno creduto, Musante può essere 1’antipittore perché sa la pittura, ne conosce i rituali e produce la sua come un giullare che protetto dal proprio diritto alla burla si permette di dire al proprio signore cose che ad altri non sarebbe concesso neppure accennare nel più arcigno consesso. Basta vedere come tratta argomentalmente il tema dei vizi capitali sfuggendo infallibilmente al mortifero e ripugnante pessimismo  oggi così diffuso tra gli artisti che ha ispirato quasi tutti coloro che si siano posti simile soggetto. Si tratta di un’arguzia bieca e ridente che sarebbe molto piaciuta ai surrealisti proprio per l’evidente giocosa irriverenza che la ispira, travestita da pacioso buonismo. È pur vero che con santa ingenuità qualcuno scrive che la pittura di Musante è semplice e, persino, di facile lettura. La trappola ha funzionato anche coi critici. Funziona tanto bene che l’efferato tradimento concettuale antipittorico, selvaggiamente anticulturale non viene percepito. Invece, avendo alle spalle una complessa vicenda figurativa, egli esplica procedure tecniche raffinate, usando sovrapposizioni di acquarelli e acrilici, un
mixage abile dei mezzi tradizionali e moderni, disciolti sopra supporti coscienziosamente preparati per ottenere un giusto aggrappo, e sfruttando sapientemente le trasparenti e liquide qualità dei materiali prediletti, il che serve solo a rendere davvero pervicace la sua scellerata rappresentazione di sciammannate perversioni pittoricamente ineccepibili e frutto d’una logorrea immaginativa inarrestabile. È un arruffo narrativo fantastico che può trovare paragone, tra i pittori, solo con quello di Antonio Possenti. Dunque, per capire davvero, occorre porsi guardingamente attenti a quanto suggerisce la nuda esegesi contenutistica. Allora si può trarre giudizio da vari elementi costitutivi delle immagini musantiane e, prima di tutto, dalla determinazione della sua idea di spazio che è subdolamente determinata similmente a quella inconsapevole delineata nelle pitture dei naifs. Non vi sono profondità prospettiche, né un’idea di “vicino” o “lontano”. Tutto quanto, figure edifici mare terra orizzonti e isole e boschi e cieli, personaggi ideali o pedestri, tutto quanto ha la stessa definizione netta, tutto è a fuoco e poggia su un solo piano verticale come fossero osservazioni di un visionario monocolo. Né si denotano punti di vista privilegiati o angolazioni inusitate: tutto è offerto con esibizione frontale. Naturalmente questa semplificazione è voluta per ottenere immediata attenzione e implica che l’osservatore superficiale deponga ogni prudenza critica e si lasci attrarre dall’incanto di questo esibito candore così come i fiori attraggono col profumo o col colore gl’insetti destinati ad esportare i loro pollini, ma sappiamo come in natura i profumi e i colori abbiano finalità ben più elevate di un semplice godimento sensuale. Così è la pittura di Musante, tutto vi appare semplice, facile, gradevole: come abbiamo visto, invece, essa ha raggiunto la propria sintesi. I messaggi artistici davvero complessi e completi possono godersi a vari livelli percettivi. Le pellicole di Charlie Chaplin fanno ridere e sorridere le persone semplici mentre inducono a meditare seriamente chi ha pensiero profondo e capacità ricettive più elevate. Ho citato esemplarmente Charlot per deliberata intenzione. Anche Francesco Musante, a modo suo, si propone come un clown della pittura ma solo i più semplici tra gli estimatori possono limitarsi a passeggiare scanzonatamente tra gli spazi dei suoi dipinti, altrimenti si deve percepire altro. Credo che il pittore, ironico e sarcastico com’è, non intenda soltanto affidare all’immagine una delirante fantasticheria orfica di storie paradossali e inverosimili; credo invero che tale sia piuttosto il suo modo d’interloquire con questo nostro modo di vivere, con questo nostro mondo che, come diciamo tutti, è davvero un manicomio, segnalando con questo detto comune un disagio crescente, neppure drammatico, e la tollerante disapprovazione, talvolta ridente, con cui l’uomo qualunque guarda ai giochi di potere, alle oscillazioni dell’economia, alle evoluzioni incredibili della politica, ai giochi di prestigio dell’autorità che appare e scompare secondo convenienza, alle leggi che vengono adattate alle esigenze più triviali, alle disparità sociali, e via seguendo in questo pazzo, pazzo, pazzo mondo di cui le follie dipinte da Musante non sono che una bonaria traduzione fantasiosa. L’illogicità è la sua logica corrente. Ma, ripeto, bisogna stare attenti: se un giorno Musante v’invitasse a giocare Battaglie Navali, siate certi che ultima barca ad affondare non sarà la sua.

Renzo Margonari, giugno, 1998

Esiste una linea fantastica nella pittura del Novecento che si snoda per il tutto il secolo e che marcia in parallelo con la miriade di esperienze “altre” interne ed esterne all’utilizzo di questo mezzo. Esistono artisti che hanno scelto non già di “scartare” il reale dalle loro analisi ma di trasfigurarlo in una poetica di sospensione dal tempo e dallo spazio, di non sottoposto all’immediata contingenza, di proporlo in una condizione “oltre” che muova sincronicamente appunto l’ambito del reale e quello del fantastico.

Francesco Musante è infatti un pittore non realistico che però si esprime attraverso le immagini (nel suo caso proprio di figure si tratta).

Osservando le opere che ne hanno segnato il percorso si evidenziano subito due fatti, Innanzitutto la decisa coerenza e consequenzialità del suo procedere e subito dopo il trovarsi perfettamente a suo agio in questo linea della contemporaneità. Va però precisato che non si tratta di pittura surreale, anacronista,  citazionista, deliberatamente fuori moda: è  invece un sistema assi più complesso che mette insieme ispirazioni ed intenzioni le più diverse, addirittura contraddittorie. Immagini l’opera di Musante al centro di un quadrilatero ai cui vertici porre i nomi di Depero, Chagall, Klee e Dubuffet (e già vi potete accorgere delle evidenti differenze che intercorrono tra loro:

Per Depero cogliamo l’aspetto iperdecorativo, illustrativo insito nella sua accezione di Futurismo (il secondo Futurismo dei maturi anni Trenta), una tensione avanguardista eppure legata alla necessità di comunicazione immediata –gli omini pre-tecnologici dell’artista di Rovereto accanto ai maghi e ai poeti vestiti di rosso di Musante.

Da Chagall è invece fatto derivare tutto l’universo più favolistico di una pittura popolare molto colta che ama raccontare e raccontarsi, una pittura che affonda le radici nei suoi luoghi d’origine ma che si propone in quanto testo visivo letterario adatto a qualsiasi tipo di pubblico.
E se di Klee Musante coglie la grafia, il segno sintetico, talora criptico ed orientaleggiante, è con Dubuffet (artista cronologicamente a noi più vicino) che scopriamo interessanti paralleli. Pur lavorando infatti in un ambito informale, e dunque per la quasi totalità segnico, gestuale e comunque aniconico,  Dubuffet ricerca una dimensione pittorica che sappia rendere un forte valore simbolico, immediato, persino ingenuo; un’Art Brut semplice come la potrebbe fare un bambino o un pazzo, narrativa, teatrale, un lavoro ciclico e seriale con personaggi e luoghi attraverso cui creare familiarità al pubblico. Anche Musante lavora per cicli, organizza storie in episodi: quelli che in Francia erano Macadam, Philoblus et c. (che straordinari nomi circensi) sono oggi Frizzi & Frazzi nella città di Mirabilia (forse il prosieguo di una città invisibile di calviniana memoria).

Si è scelto padri nobili e non comuni il nostro Musante, ma c’è di più; c’è altrettanta continuità con quello che potremmo chiamare il fantastico italiano, presente in diverse stagioni e in diversi momenti del secolo prossimo a finire, un percorso che attraverso il realismo Magico e la Metafisica, tocca il futurismo e si ripropone negli anni Cinquanta con il Surrealismo rivisitato che tanto amava Luigi Carluccio, ma soprattutto si esprime in maniera quantitativamente e qualitativamente più significativa nella traduzione italiana del Pop a partire dalla fine degli anni Sessanta e per buona parte dei Settanta, anche se quei decenni parlano soprattutto le lingue minimali e concettuali,. Resta il fatto che proprio da quell’ambito si è sviluppata una possibile linea di ricerca parallela alla pittura italiana, legata ad altri fatti della cultura di cui parleremo dopo, che ha visto l’affermarsi di differenti artisti per diverse temperature. Penso da una parte al colorismo di Tadini, non a caso oltre che pittore, scrittore, critico intellettuale a tutto tondo, e dall’altra a Baj e alla sua trasfigurazione dell’avanguardia in un langue popolaresca al limite della naiveté; da una parte a Nespolo e al suo segno invasivo nell’ambito di una comunicazione sempre più allargata dell’arte, e dall’altra al naturalismo in chiave pop e surreale di Possenti.. Come pure negli anni Ottanta, da una parte alcune espressioni ludiche nell’ambito dei cosiddetti “”Nuovi nuovi”, la proposizione barilliana alternativa soft all’espressionismo transavanguardista, e in particolare i quadri di Bruno Donzelli, mentre dall’altra la pittura installativa dei Nuovi Futuristi e di Marco Lodola, sul versante high tech ma pur sempre di ispirazione pop.

Francesco Musante opera in questa linea pittorica con tutta una serie di varianti che ne rendono il lavoro personalissimo ed attuale: il tratto illustrativo e favolistica reso con colori acidi e contemporanei, la grafia nervosa ed asciutta che mira alla sintesi, la descrizione dettagliata che riempie tutti gli spazi del quadro, la coabitazione sul medesimo supporto di vari momenti, la riscoperta delle radici popolari e il solido ancoraggio al proprio patrimonio culturale senza spingere però sul tasto dello Strapaese.

In particolare è dalla seconda metà degli anni Ottanta che il lavoro di Musante si è precisato e insieme arricchito: precisato perché si è assestato su una linea molto riconoscibile e coerente; arricchito perché ha assunto una miriade di particolari e una preziosità di materia pittorica proprio evidente. Ma ciò che mi fa risultare stimolante la lettura di Musante oggi (e focalizza l’attenzione non più sul personaggio così simpatico e affascinate, dal suo favoloso eremo spezzino, ma sul pittore e sul suo lavoro) è un impatto estroflesso, un impatto che colga la pittura in quanto parte di una più complessa fenomenologia intellettuale. L’aggancio mi viene dal mondo della letteratura e dall’osservazione che, in un’epoca di azzeramento linguistico, di abbattimento dei confini, di (folli) unificazioni idiomatiche, l’unica strada percorribile, la grande chance di questi anni è la creazione di nuovi idioletti , lingue parzialmente reali e in altra parte inventate che riflettano la coabitazione di mondi e punti di vista diversi, dell’arcaismo come dell’high tech, del dialetto come dello slang giovanile, del latino o del volgare come dell’anglismo ecc…Non è vero quindi che l’era cybertecnologica uniforma, anzi ci sono mille possibilità di recuperare forme lontane e di utilizzarne di altrettante nuove o inventate attraverso un uso creativo e conoscitivo della macchina.

L’dioletto pittorico di Francesco Musante si fonde molto bene con la letteratura, in  particolare risulta legato a quella dell’Italia del Nord che mostra indubbiamente climi e temperature diversi che in altre regioni. Il lavoro di Musante è duplice: sulle atmosfere e sulla lingua. Se per le atmosfere la sua pittura si snoda idealmente attraverso il Celati delle Avventure di Guizzardi, il Calvino delle Città Invisibili, il Cavazzoni del Poema dei lunatici, con la lingua (e quanto spazio ha infatti la parola scritta, vero e proprio corollario e didascalia delle sue immagini) Musante fa un lavoro molto simile a quello di Dario Fo, con il “gramelot” un po’ vero e un po’ no del Mistero Buffo:teatro – pittura del vilain, personaggio che dice la verità come i vari alterego dei quadri del nostro Musante. Sta qui l’ispirazione “padana” nelle sue più recenti opere, in particolare nel ciclo di quadri qui riprodotto. Musante studia le radici culturali della Bassa e le trasforma in un idioletto veloce e contaminato, figlio insieme della parlata locale e del computer, delle usanze popolari e della cultura pop. Delle favole di paese e della storia dell’arte….Il lago di Como e il risotto alla milanese, la poesia futurista e il Torrazzo di Cremona, il pittore madonnaro e il violino Stradivari, un dejeneur sur l’herbe e un sogno marinettiano…

 

Luca Beatrice, giugno, 2002

Curatore padiglione Italia Biennale di Venezia 2009

…Solo il domani guarda indietro…

L’universo di Francesco Musante è sigillato nella presente circostanza in un’icona, nel contorno dorato e profano di un’illuminazione improvvisa, con certi personaggi e certi particolari che paiono voler lasciare la scena e proiettarsi verso di noi. L’effetto è determinato da alcune applicazioni in rilievo. Ma la vera novità risiede nel fatto che ogni gesto dell’artista viene suggerito da una poesia che a sua volta ha condizionato chi scrive queste righe perché un conto è interpretare criticamente il senso della pittura di Musante, un altro è farsi coinvolgere dai versi e “rileggere”, attraverso questi versi, i vari dipinti, come se ogni poeta chiamato in causa fosse ritornato sui suoi passi e avesse preso coscienza delle opere pittoriche nate dalla suggestione estatica delle parole. Ho tentato quindi di interpretare il ruolo delicato del “medium” (mi perdonino gli autori presi in consegna) per un’aggiunta, per una puntualizzazione persuasiva, si spera. Comunque ormai il guaio è consumato e consegnato alla stampa e ai riflessi del Maestro Schenone e della sua farfallina/sirena Sidgi, a cui i corollari lirici e narrativi interessano fino a un certo punto poiché loro (beati loro) vivono le vicende in un’atmosfera sospesa, lieve, notturna, ma affidata a una notte centellinata da quel desiderio che si accompagna ai sogni riparatori della piattezza o della frustrazione fornite dal quotidiano. Qui si recita il rito della fuga, della libertà che fa interagire in assoluta sintonia e logicità lune e pesci arabescati, personaggi plananti su case e rincorse amorose lungo i sentieri del cielo, come se questa fosse la ginnastica più logica del mondo. In un simile contesto il tempo assume un valore assolutamente relativo. Eppure qui emerge una verità assoluta, che riguarda anche o soprattutto la vita reale: il domani, per esistere, deve specchiarsi nel passato per centellinarlo. Ce lo dicono i poeti che intingono i loro versi nella nostalgia; ce lo dicono le immagini di Musante costruite sui desideri e sui sogni maturati lungo passi già percorsi. Il domani è uno sguardo da lanciare alla luna che si moltiplica nell’accogliere le attese; l’amore è un sentimento da consumare nella speranza, da imprigionare in un cuore dorato, magari nell’asprezza dell’oggi da mutarsi in delizia, perché così si alimenta la parte felice della memoria. Sappiamo che l’esistenza è un percorso tracciato sul filo degno di un equilibrista, teso tra una minaccia e una promessa, tra un pericolo di caduta e il convincimento della resurrezione. Occorre dunque saper leggere i segni positivi nelle orme che lasciamo dietro di noi in attesa dell’alba, in attesa di un sorriso che verrà. Intanto il sorriso viene dalla rappresentazione, da un piccolo aggiustamento narrativo, come se si potesse veramente mutare il destino aggiungendo una strofa o un solo verso al canto che decide la fine e la nascita dei giorni, uno dopo l’altro. “Sarei però contento anche d’ogni piccola cosa se lei fosse mia”, sospira Tagore che ancora non osa aggiungere “e se non temessi di perderla al primo richiamo della notte”. Infatti Tagore/ Musante/ Schenone insegue la fanciulla agognata attaccandosi al suo cuore come a un palloncino pronto a svanire oltre il riquadro del cielo. Così si dipanano tra un prima e un dopo, tra un ieri certo e un domani possibile, i racconti/sogni amorosi di tutti noi che ci riconosciamo (o che vorremmo riconoscerci) nei personaggi di Francesco Musante, nelle sue occasioni di compiaciuta libertà creativa. Sono icone da deporre in camera da letto, in bella contemplazione, come augurio prezioso di buon viaggio notturno in cui si recita e si rappresenta l’opportuna poesia quale preludio al sorriso del nuovo giorno. Pertanto, buonanotte e sogni d’oro, sogni racchiusi nell’oro di Musante.

Marzo, 2002 Luciano Caprile

Francesco Musante. L’argonauta innamorato

Molti scrittori famosi si sono dedicati al racconto di viaggi in mondi favolosi e fiabeschi rivolti principalmente a stimolare la fantasia e il divertimento dei piccoli lettori, ma destinati anche ai grandi affinché non dimentichino mai di essere stati bambini e per sollecitarli a conservare la capacità di vedere le cose con gli occhi meravigliati del fanciullo.
Anche gli artisti, attraverso la raffigurazione di luoghi e personaggi fantastici, ci inducono ad aprire la mente, ad oltrepassare il confine tra la realtà e la favola, per trovare, proprio tra gli scenari dell’immaginario, molteplici similitudini con il quotidiano vissuto. La fiaba, come la raffigurazione fantastica, diventa un semplice mezzo espressivo per raccontare ciò che più è autentico e che spesso si dimentica con la nostra crescita e maturazione.
Per artisti come Francesco Musante, spesso, basta una semplice circostanza, uno spunto, un flashback o uno stato d’animo particolare per far scattare un meccanismo mentale che lo induce a iniziare un racconto fantastico con un preciso punto di partenza, ma quasi mai con un finale prevedibile. Il pittore spezzino potrebbe essere paragonato al pilota Antoine, lo stesso scrittore Antoine de Saint-Exupéry, che attraverso l’incontro con il giovane protagonista del libro Il Piccolo Principe e la descrizione dei suoi viaggi per insoliti pianeti, ci conduce alla riscoperta delle cose essenziali della vita. Così come lo scrittore francese, Musante è consapevole che gli adulti fanno di tutto per scoraggiare la fantasia e la creatività dei bambini, cercando di trasmettere modelli che rendono asettica la vera natura di chi deve crescere.
Ragazze volanti con il cuore in mano che rincorrono nuvole colorate, figure maschili che, incredule e meravigliate, si proiettano in acrobazie per sfuggire a una meravigliosa pioggia di cuori colorati. In certi casi un filo sospeso non trasfigura semplicemente una prova d’abilità legata all’equilibrio, ma diventa simbolo di divisione tra dimensioni differenti, tra stati diversi, tra finito e infinito, tra giorno e notte, tra realtà e favola, tra vita vissuta e vita auspicata. Ecco che i sottili cuori, che sembrano scendere dal cielo con la levità della purezza, si trasformano in simbolo di quell’amore universale in grado di contaminare ogni cosa, di cambiare le sorti del mondo e di sovvertire gli animi delle persone che, almeno all’apparenza, sembrano lontane dal calore della luce del sole.
Realtà, fantasia, non-sense, mistero, intrigo, frammenti memoriali sono uniti a parti ideali che il nostro artista raccoglie nel proscenio di un teatro dalla quinta quantomeno suggestiva ed evocativa. Per riconquistare spontaneità e naturalezza è necessario scavare e cercare nel proprio cuore: Musante, come un piccolo argonauta, intraprende innumerevoli viaggi fantastici, ma anche se descrive mondi più affini al bambino che all’adulto, è proprio ai fruitori maturi che vuole comunicare.
Nel suo racconto, Antoine descrive gli adulti come amanti delle cifre, dell’effimero e dell’apparenza, poco attenti al profondo ed all’intimo, mentre eleva i bambini a persone comprensive, mature a tal punto da giustificare il modo di essere e di pensare dell’adulto stesso, ma ancora così pure da dimostrare senza filtri i propri sentimenti. È attraverso un linguaggio semplice, essenziale, diretto e, in certi casi, primordiale che il pittore riesce a descrivere la vera natura umana, la necessità di abbandonarsi alle emozioni e alle passioni. Attraverso i suoi lavori, Musante cerca di far tornare bambina la stessa umanità, tenta di tirare fuori il fanciullino che c’è dentro ognuno di noi per obbligarci a toglierci quell’armatura e quelle maschere che hanno contaminato, nel corso degli anni, quella purezza d’animo appannaggio dei bambini.
Il protagonista delle sue opere, un elegante personaggio con una tuba particolare, è in perenne migrare, di solito fluttuante nel cielo stellato, a cavallo di un treno, su una nave o occupato in qualche acrobazia, spesso sospeso in aria, ma pur sempre intento a rincorrere l’amore o a farsi travolgere dal sentimento. Tra visionarietà e lucida illusione, tra storia autobiografica e fantasia, nelle sue opere viene narrata la necessità umana di creare un legame, un rapporto sentimentale a cui concedersi liberamente. Musante vive in pieno la spontaneità dei propri sogni e la fantasia irrazionale delle proprie composizioni, ma al tempo stesso ha coscienza delle proprie intenzioni attuando all’interno del processo creativo una personale organizzazione. Ecco che l’artista, come la volpe che incontra il Piccolo Principe nel racconto di de Saint-Exupéry, ci invita ad amare, senza fermarsi alle apparenze, scoprendo che in ognuno c’è qualcosa di invisibile che è più importante di quello che appare in superficie.
Può capitare che un viaggio nella fantasia o un vera esplorazione possa essere utile per capire il valore delle persone che amiamo, allontanarci mentalmente o fisicamente porta a riflettere ed apprezzare i lati più belli delle persone amate ed a saper accettare anche ciò che meno ci piace. Un affetto sincero accetta incondizionatamente l’amato così com’è senza volerlo cambiare. Il viaggio che Musante fa intraprendere ai suoi personaggi, nonostante sia descritto come un’escursione magica, ha finalità istruttive: ricercare l’amore o ritrovare la passione. Ogni sua opera potrebbe essere considerata come il luogo dove i desideri prendono forma: il pittore ci invita a preservare, rimanendo noi stessi, la nostra capacità di sognare e di usare la fantasia per creare un qualcosa di veramente concreto e stupefacente.
Se è vero quello che Antoine de Saint-Exupéry afferma nella sua favola “non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, Musante riesce a dar forma al sentimento. In fondo, su uno scenario favoloso, l’artista dipinge quanto di più reale e ricercato ci sia: l’amore, il vero senso per cui vivere, il reale motivo per cui sognare e continuare a cercare.

Maurizio Vanni
Museologo, Critico e Storico dell’arte

Direttore del Museo Lucca Center of Contemporary Art

Per Francesco Musante

Inevitabile il deflusso nella scenografia del mitografico pittore Francesco Musante, inesauribile inventore di spazi che paiono imbanditi per fare di sé spettacolo, ancor prima di essere invasi e festosamente animati dalla folla dei marionettistici personaggi e dal dovizioso repertorio di oggetti e attrezzi di scena, appunto, di cui Musante abitualmente popola i suoi dipinti. Si annuncia al Carlo Felice di Genova, teatro già ripetutamente visita•to dagli incantamenti visivi di Emanuele Luzzati, una Bohème affidata all’immaginazione scenografica di Musante, che esordisce nel ruolo e lo fa, in sostanza, senza operare particolari mutamenti – salvo, ovviamente, il cambio di scala e le specificità funzionali e narrative della messa in scena – al proprio linguaggio pittorico già tendenzialmente voca•to, del resto, a concepire l’immagine come luogo squisitamente teatrale. Ricordo peraltro le non poche sue opere concepite come veri e propri teatri di apparizioni e azioni drammatiche, in una chiave espressiva giocata sulla pungente allusione e sul registro ludico. Si tratta di lavori oggettuali, ossia concretamente impostati come boccascena, non meno che simulazioni pittoriche della stanza o dell’arena scenica. Rimando, a titolo di esempio, ai numerosi “teatrini” da Musante imbanditi per offrire “macchine” operative sempre nuove alle performances e alle metamorfosi del suo Pinocchio, versione degna di occupare un posto privilegiato tra le più importanti succedutesi nel seguito dei decenni di vita del celebre burattino. A giudicare dai bozzetti – sipario siparietti quinte fondali costumi attrezzi e oggetti di scena – alcuni dei quali presentiamo in queste pagine, sarà un’ambientazione della Bohème in chiave decisamente fantastica e luminosa, una deriva nel sogno dei con•tenuti narrativi. Musante aggiungerà senza dubbio una godibile pagina, e c’è da cre•dere che non resterà isolata, al catalogo dei pittori chiamati nel tempo a visitare la scena, con esiti sempre originali e non neutri, ossia fortemente connotati sul piano della lettura dell’opera. Ed è consuetudi•ne, questa della scenografia dei pittori, assunta per la prima volta come priorità dal Maggio fiorentino, i cui allestimenti firmati da Casorati, De Chirico, Sironi, Kokoschka, Maccari, Guttuso, per dire i primi nomi che mi vengono a mente, sono diventati un trat•to distintivo di quella festa della musica. Bisogna dire che Musante ha nel proprio DNA l’idea del teatro. Ve lo induce il carat•tere estensivo ovvero invasivo dell’azione figurale nello spazio simulato che è luogo visionario. Egli squaderna la pittura a dio•rama, nel recinto pur breve del quadro, e potrebbe ormai proiettarla a raggio laser sul macroschermo celeste. Del quale già, del resto, è posta l’idea nei fondali trapunti di stelle che compaiono in numerose opere. Osservavo tempo fa come sembrasse legit•timo e naturale accedere da spettatori a una ribalta così capziosa, che Musante apparecchia con la minuzia esecutiva di un alluminatore gotico e la dovizia di invenzio•ni figurali e di effetti speciali di un autore di fiction cinematografica. Penso, infine, che sia non solo possibile, ma addirittura producente assecondare i musantiani ludi marionettistici e funambolici, rivendicando il diritto del critico come di ogni altro spet•tatore a mettersi semplicemente a sedere e a godersi lo spettacolo. Anzi, a entrare nel gioco almeno idealmente, in attesa che Musante fornisca in versione videoga•me interattivo i suoi vertiginosi “tableaux vivants” di acrobati e equilibristi del suo speciale Circo di Pechino, consentendo di concretamente intromettersi nell’azione figurata e di scomporla, a mo’ di puz•zle, e magari prelevarne singole o serie di tessere (personaggi accessori contesti) da utilizzare creativamente in altre storie, morfemi di un linguaggio visivo da mecca•no elettronico. Ornata di figure e di oggetti che si snodano come un rabesco, l’immagine consente una lettura ludica e disinvolta, per così dire, di queste scatole magiche ispirate a una sovrana “leggerezza”. La quale è una qualità della forma pittorica, e in quanto pittura Musante la governa con mano agile ed esatta nei tracciati lineari quanto morbida e aerea nella resa della materia, che ha trasparenze da acquarello e brillantezza di smalto; ed è una proprietà del visibile, nel senso che tutto qui levita o tende a vincere la forza di gravità, per cui vorrebbe involarsi anche quel che si presuppone abbia salde radici (alberi case scogliere), a causa non già d’un agente atmosferico, un ciclone rapinoso, ma per un intrinseco irresistibile impulso a scio•gliere i lacci terrestri, a disancorare gli ormeggi marini. Le atmosfere rarefatte e gli artifici di Musante si confanno a chi ha lo sguardo penetrante e la mente pronta a riconoscere e a prendere al volo le “occasioni” alea•torie del sogno, per agganciare il proprio vagone alla locomotiva del poeta. In fondo, l’artista medesimo suggerisce un’adesio•ne ludica ai propri percorsi, affermando di essere lui il primo a divertirsi – in un modo che non parrebbe nemmeno sfiorato dall’ombra della ungarettiana “allegria” di naufraghi alla deriva nell’esistenza, né da un palazzeschiano sorriso cinico – nel suo inesausto rigenerare la lanterna magica e animare d’un nuovo quadro il feuilletton che narra senza apologo la favola della vita. Non solo. Richiesto dei contenuti generali che agitano il suo mondo fantastico, del filo o dei fili (intreccio) in cui si dipana la fabula e degli eventuali suoi significati nascosti, il medesimo Musante, capoco•mico gran burattinaio e Mister Barnum in sedicesimo, afferma bellamente di non sapere alcunché in proposito, né l’oscurità dell’ignoranza sembra turbarlo, se lascia intendere di non tenere granché ad appro•fondire l’argomento. Il fare creativo è liberatorio, sembra dire Musante, fonte di un piacere che appaga e gratifica le aspettative. Tanto più nel suo mondo in cui, improntato alla labilità e alla imprevedibilità del sogno a occhi aperti, costruito sul libero gioco associativo e sulla ibridazione fantastica di parti eteronome della realtà, non sembrano avere diritto di cittadinanza la crudeltà, il sogghigno, l’insidia del canto che la sirena rivolge al viaggiatore ammaliato, la trappola dolcis•sima e tossica della veste sontuosa che il fiore carnivoro dispiega per attrarre e inghiottire l’insetto incapace di sottrarsi alla sua seduzione. Il congegno visivo di Musante, la sua mac•china fantastica ora applicata all’altalena del sogno e della realtà di Bohème, ha un funzionamento autoalimentante a moltipli•cazione caleidoscopica, virtualmente illi•mitata delle funzioni narrative. Come in un gioco di scatole cinesi: ognuna un universo compiuto e autonomo, oltre il quale non sembra possibile e nemmeno necessario andare, e che pure racchiude, e svela appe•na la si solleciti e si faccia scattare la serra•tura, un microuniverso ulteriore, a sua volta compiuto e autonomo nella sua piccolezza. Ognuno disposto a farsi stanza o episodio di un racconto, che ne contiene o ne pre•suppone un altro, e potremmo noi spetta•tori permutarlo in parola nel nostro imma•ginario, o in musica nell’universo sonoro. Occorre accettare l’acchito di Musante a scendere sul suo medesimo terreno, a lasciarsi catturare dallo specchietto delle immagini e dalle concatenazioni narrati•ve per seguitare sul piano verbale, delle immagini verbali le concatenazioni imma•ginative del pittore. Su questo terreno lo stesso Musante offre modelli con le ornate didascalie che si snodano ai bordi dell’icona, e formano una specie di cornice graffitata, una superficie a margine idonea al commento, un’area limi•nare tra la parte visualizzata dell’opera e il resto non detto, la coda o la scia, le ipotesi e gli sviluppi possibili delle storie date in immagine entro il recinto pittorico. Con la sua grafia falso-ingenua, in un corsi•vo sghembo e qua e là contratto che pare inciso su un intonaco con una punta di chio•do, Musante riassume e commenta l’azione e presenta le “dramatis personae”, vere e proprie maschere da commedia dell’ar•te, per la tendenza ad assegnare ruoli di massima e comportamenti stereotipati ai personaggi di una rappresentazione che si recita a soggetto. Sono ammesse variazioni estemporanee, ingerenze e illazioni in una pièce la cui conclusione sarà comunque un ritorno al punto di partenza, con una logica circolare da moto perpetuo. Per tornare esplicitamente alla tendenzia•le appartenenza scenica della pittura di Musante, si potrebbero individuare e classi•ficare gli elementi del suo repertorio sotto la specie dei “naturalia” e degli “artificia•lia”, e i sottogeneri degli animati e degli inanimati, i mobili e gli immobili, magari distinguendo, in una nicchia, i semoventi e gli inerti, i rigidi e i flessibili, e così via; e poi i luoghi, gli ambienti, le strutture e quanto altro venga in mente di reperire. In parallelo alla classificazione procede•rebbe la descrizione, casella per casella. Ad esempio, gli ambienti e gli sfondi hanno diversa conformazione, ma sono invariabilmente esterni, non stanze o recin•ti che comportino uno spazio chiuso e in qualche modo rimandino a un privato, e non voglio dire che presuppongano o con•figurino simbolicamente un ripiegamento nel profondo. Nelle opere in cui si faccia esplicito riferimento alla struttura di una stanza, magari un sottotetto gelido da Bohème, in tutta evidenza si tratta di un cubo prospettico, di una teca o un clas•sificatore da collezionista, di un teatrino dei pupi, ossia uno spazio chiuso-aperto convenzionale, delimitato da fondali e arti•colato per paratie e strutture mobili, nella cui qualificazione d’ambiente praticabile e di clima gioca un ruolo fondamentale la luce. Quando dipinge l’effetto notte e l’ef•fetto giorno Musante lo dichiara, dunque quella che spiove a profilare il paesaggio naturale o urbano, i personaggi, l’attrez•zatura di scena e, infine, l’azione, è luce artificiale cui provvedono le lune dislocate con strategia scenotecnica, e si capisce che i notturni sono dunque fondali utili ai controluce. Dopo l’ambiente e i fondali, ecco l’attrezzatura di scena e gli oggetti che al pari dei personaggi sempre vivace•mente forniti di abiti di scena, concorrono al funzionalmento dello schermo visionario di Musante consentendo molteplici livelli all’azione drammatica e alla lettura ossia alla inevitabile elaborazione dello spetta•tore nel proprio immaginario. L’esordio nella scenografia con Bohème al Carlo Felice la direi dunque una esten•sione inevitabile e persino scontata della fantastica pittura di Musante. Il quale, se potesse, dipingerebbe ovvero invaderebbe con il disegno fluente e il vivace e trascolo•rante caleidoscopio del proprio mondo di visione, la totalità della superficie aperta al suo sguardo e al suo corpo. Come ha fatto nello spazio davvero d’invenzione del suo studio, dove ha dipinto duecento metri quadrati di pavimento, per camminare sulla costellazione di presenze animate d’un cielo pittorico.

Nicola Micieli, febbraio, 2012